Il caporale che stupì l’Europa

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Ha visto la luce, qualche anno fa, per i tipi delle Edizioni Odisseo di Itri, il libro “Napoleone Bonaparte: ai posteri l’ardua sentenza” di Alfredo Saccoccio, opera straordinariamente interessante, dal ricchissimo apparato iconografico, che ha anche il merito di aver evitato il difetto solito dei libri su Napoleone: la partigianeria.

L’autore ci conduce, grazie ad una miniera di notizie e di rivelazioni, ad un’idea più veritiera del carattere dell’imperatore raggiungendo il suo scopo con l’acribìa delle sue messe a punto e con l’ordinata esposizione di minuti particolari caratteristici, qualità, queste, che, di libro in libro, si sono affinate, semplificate e irrobustite.

Il “piccolo caporale” fu un uomo di sicura riuscita, pregno di carisma, che si credette insuperabile, e in verità lo fu, finché si mosse nel suo campo e nel suo territorio, sul suo cavallo di battaglia e sul suo trono, obbedito ciecamente da uomini che accettavano, come un branco di pecore, il suo assolutismo, uno dei più bassi lasciti della Rivoluzione francese, che assolveva e anzi santificava qualsiasi crimine perpetrato in nome dell’Idea, dell’Utopia, e consentiva il sistematico saccheggio dei beni italiani.

Il “giovane liberatore d’Italia” deluse profondamente quanti avevano creduto nel vento innovatore della Rivoluzione francese e nelle idee di cui egli si era fatto banditore tra i popoli. Ugo Foscolo e con lui molti, generosi giovani del suo tempo videro nell’armata napoleonica un valido strumento per creare anche in Italia un ordine nuovo, sia nell’ambito politico che in quello sociale, un rinnovamento fondato sulla libertà e sull’uguaglianza di tutti i cittadini. Il Bonaparte, invece, mirava solo a consolidare la sua potenza e il suo prestigio, anteponendo le proprie ambizioni agli ideali che vantava di professare. Questo ignominioso baratto tolse molte illusioni ed incise profondamente nei cuori degli italiani. Nelle “Ultime Lettere di Iacopo Ortis” (e nell’Ortis adombra se stesso) il giovane poeta, che già aveva inneggiato in un’ode a “Bonaparte liberatore”, con l’animo pieno di amarezza, smaschera, agli occhi del popolo, le male arti con cui il tiranno l’opprime, spadroneggiando sull’Italia, in nome di una libertà sempre più conculcata e vilipesa. Egli scaglia contro Napoleone una durissima condanna, che resta un monito per gli italiani e per tutti i popoli: dai tiranni, che mirano solo a crearsi una solida base di potere, non ci si aspetti mai né giustizia né libertà, una delle parole più usate ed abusate, di cui abbiamo fatto un mito, forse il vero mito del nostro tempo. Da chi non ha patria e ha “un animo basso e crudele”, la mente di una volpe, astuta e calcolatrice, che usa l’inganno e la frode, non bisogna aspettarsi “mai cosa utile ed alta”. E pensare che il Corso, in una lettera del 19 settembre 1797, si era lasciato sfuggire la confessione “essere  Venezia la città di tutta l’Italia maggiormente degna di libertà”.!

Il vincitore di Marengo fu un cumulo di inganni, un fuoco fatuo, un falso splendore, un “Krampus”, un diavolo cornuto, dai piedi forcuti, a detta della stessa imperatrice Maria Luisa. Per alcuni, l’ “l’uomo della Provvidenza” era, in realtà, un orco crudele, un pazzo sanguinario, un despota disumano, un emissario di Satana, un Anticristo, un figlio della rivoluzione, che “disconobbe sua madre e,  se per un istante  abbracciò la libertà, lo fece per strangolarla”. Il deposto imperatore divulgò poi, in punto di morte, con il contributo degli “evangelisti” Las Cases, Bertrand e Marchand, raccolti in piccola corte intorno a lui, nell’eremo di Longwood della sonnolenta Sant’Elena, la leggenda romantica del Prometeo liberale vinto, ma non domo dalle vecchie oligarchie, avvelenato dagli inglesi, infamati al di là del vero.

Macroscopica mistificazione quella di Napoleone, grande impostore, per dare ai posteri una buona immagine di sè. Il Bonaparte il processo di falsificazione lo ha connaturato in lui, ricorrendovi come depistaggio (“bisogna far credere” è l’espressione ricorrente nei suoi scritti). Lo si evince da ricerche d’archivio, che costituiscono un tassello importante per ricostruire cosa accadde negli anni delle strapotere francese in Europa e del tiranno Napoleone, dissanguatore della più bella gioventù dell’Impero mandata al macello spezzando il cuore di tanti padri e madri (vent’anni di battaglie costarono più che le più accanite guerre di venti secoli, ricoprendo l’Europa di tombe, di ceneri e di lacrime e riuscendo, a detta di Massimo Taparelli d’Azeglio, “perfino a farsi celebrare, ammirare, sto per dire, adorare da tutti i balordi ai quali ha vuotato le vene”), che conquista il Bel Paese con la scusa di liberarlo e lo seduce con il fascino eccezionale della sua figura, sfruttando, con opere di volpe più che di leone, le circostanze a proprio profitto. Il Bonaparte, però, ha, per il suo corteggio, le erranti ombre del duca di Enghien, di Pichegru e di tanti altri, che furono trucidati per fondare e mantenere quella potenza “demoniaca” dell’uomo che guidava i destini dell’Europa; potenza “demoniaca” volta ad asservire, ma non ad illuminare i popoli, tanto che il buon Manzoni, dopo i fatti dell’aprile 1814, scrisse una canzone, che dice: “Il tiranno è caduto: sorgete / genti oppresse, l’Italia respira”.

Era finita l’oppressione. Ma allora, fu vera gloria? Ci torna in mente il celebre interrogativo manzoniano del “Cinque Maggio”, che abbiamo imparato sui banchi di scuola, a proposito di un personaggio che ne ha fatte dire di tutti i colori ai posteri e ai contemporanei.

In ultima analisi, possiamo dire che il rigoroso storico aurunco non si stanca di perlustrare, di indagare, di legare, di alludere, di dimostrare, di citare fatti riguardanti il guerrafondaio, che ha saputo porsi a capo di popoli, riscuotendo la loro fiducia, e di far sognare i suoi cenciosi uomini, grazie alle due anime della Francia, quella rivoluzionaria e quella conservatrice, che per lui si getterebbe nel fuoco, diventando un eroe della mitologia moderna. E non avvertì deformazione gratuita o arbitrio.

Federico Meschino

 

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